La Festa di Chanukà
חנוכה
Cheit Nun Vav Kaf Hey
Ogni festività ebraica possiede un suo carattere del tutto particolare, ben diverso da quello delle altre celebrazioni dell’anno religioso. Si pensi a Pesach, con la sua enfasi sull’astensione dal chametz (sostanze lievitate) e sul rigore della Kashrut; o si pensi a Sukkot, in cui parte della preghiera è lo scuotimento delle quattro specie, in cui una semplice capanna col tetto di frasche diventa la propria abitazione per un’intera settimana. Per non parlare di Rosh ha-Shannà, con lo Shofar, o del digiuno di Yom Kippur, la festività più seguita e osservata dalla massima parte degli ebrei del mondo. Si pensi allo Shabbat, a quel capovolgimento settimanale di interessi e priorità, che vengono distolti dagli affari mondani per venire rivolti verso la vita spirituale, la preghiera, lo studio della Torà.
Pur nella loro diversità, tutte le festività ebraiche hanno un unico motivo conduttore, una serie di affinità che le rende parte di un’unica famiglia. La più importante di tali affinità è la celebrazione della ritrovata libertà, dell’uscita dall’esilio. Il più duro di tutti gli esili subiti dal popolo ebraico è stato quello egiziano, e durante il Kiddush (Santificazione) di ogni festività, Shabbat compreso, si dice:
“zekher le-yetziat mitzraim”, “a memoria dell’uscita dall’Egitto”.
Da ciò si può intuire l’estrema importanza che la libertà possiede per il popolo ebraico, libertà che non viene certo scambiata per libertinismo, nel modo diffuso negli strati decadenti della civiltà occidentale, ma che viene piuttosto utilizzata per servire ancora più creativamente il Santo, benedetto Egli sia. I vari esili e schiavitù che i figli d’Israele hanno subito nella loro storia travagliata sono state esperienze tragiche non solo per le pene e le sofferenze fisiche, ma soprattutto poiché gli oppressori hanno sempre tentato di strappare l’anima ebraica dalla sua radice e dalla sua identità: la santa Torà.
Solo riferendoci a tali tentativi di alienare il popolo ebraico dalla Torà è possibile comprendere gli eventi di Chanuka, la celebrazione per eccellenza della libertà e dell’indipendenza. Quanto per Israele vita civile e vita religiosa siano due parti di un’unica realtà inscindibile lo dimostra proprio la festa di Chanuka. Per altre nazioni del mondo gli anniversari delle vittorie militari sono semplici feste civili, ricordate al più con qualche parata e qualche discorso retorico. Per tutti gli ebrei, ovunque essi vivano, Chanuka è la prova dell’eternità di Israele e della verità delle promesse divine.
“Netzach Israel lo ieshaker” dice il verso (Samuele Primo 5,29), “l’eternità di Israele non mentirà”,
cioè la scelta di Israele come popolo di Dio non è temporanea ma eterna. Netzach significa anche “vittoria”, quindi il versetto precedente può venire tradotto come: “la vittoria di Israele non mente”. La vittoria di cui facciamo memoria a Chanuka non è una falsa vittoria, come quelle di altri eventi della storia umana, stati o popoli che si sono ribellati ad altri, salvo poi costruire a loro volta sistemi di governo ancora più repressivi e violenti dei precedenti.
Vi sono altre particolarità in Chanuka. Si tratta dell’unica festa durante la quale gli ebrei sono tenuti a rendere noto al mondo ciò che è avvenuto. Ecco il senso dell’accendere la Chanukià (il candelabro a nove braccia) vicino alla finestra o, come fanno alcuni, in un’apposita teca di vetro posta in strada, vicino alla porta. Inoltre l’accensione va effettuata “prima che cessino i movimenti di persone nel mercato”, cioè quando c’è ancora gente per strada. Le altre celebrazioni del calendario religioso ebraico sono un qualcosa di privato, che riguarda soprattutto il rapporto tra Israele e Dio. A Chanuka occorre invece far sapere al mondo intero che la libertà e l’indipendenza sono il più prezioso dei beni, che Dio aiuta gli oppressi, sostenendo la causa dei piccoli se vengono soffocati dai grandi. Da parecchi anni ormai, su iniziativa del Rebbe di Lubavitch, nelle piazze centrali di importanti capitali e città del mondo viene accesa una grande Chanukià per tutta la durata degli otto giorni della festa, a riprova del bisogno di dare la massima pubblicità alla festività di Chanuka.
Nel nome di questa festa troviamo un altro importante insegnamento. “Chanuka” significa “inaugurazione”, “chanukat ha-bait”, in riferimento all’inaugurazione del Tempio di Gerusalemme, che era stato profanato dai greci. Ma la stessa radice significa anche “educare” (lechanekh), e qui troviamo un’allusione al segreto della vera inaugurazione. La chiave per cambiare direzione, per liberarci dal giogo del passato, dalle false identità che l’ambiente circostante tenta continuamente di farci assumere, consiste nella giusta educazione. Ai tempi dei Maccabei una notevole parte del popolo ebraico si stava assimilando ai costumi della civiltà greca non solo perché vi era costretto, ma perché trovava che ciò fosse una cosa conveniente. Si capisce così il perché dell’estrema attualità di Chanuka, in un momento storico nel quale l’assimilazione è rampante.
Allora come oggi, il modo più efficace per evitare l’assimilazione è l’educazione. Per “inaugurare”, cioè per rinnovare e vivacizzare, occorre educare. L’insegnamento dovrebbe evitare di cadere nella ripetizione di modelli stereotipi. Pur nella fermezza dei principi di fondo, occorre trovare il modo individuale tramite il quale in ogni allievo possa rinnovarsi l’amore per le proprie radici. Così facendo realizzeremo il consiglio datoci dal verso:
“Chanokh ha-na’ar al pi darko” = “insegna al giovane secondo il suo modo”.
Ogni anima di Israele è simbolicamente connessa con una lettera della Torà; occorre dunque un sistema educativo che, pur se centrato intorno alla Torà, lasci ampi spazi d’esplorazione, affinché ogni giovane trovi in essa il suo luogo di appartenenza.
Vediamo qualche altra considerazione sul senso generale degli eventi ricordati a Chanuka. Come abbiamo visto, il giogo a cui Israele era sottoposto in quel periodo non era solamente di natura politica. Dietro a ciò si nascondeva il tentativo da parte della cultura ellenistica, allora in piena espansione, di sopraffare la cultura-religione d’Israele, fortemente spiritualizzata e ispirata ai precetti etici della Torà. Il pensiero del mondo ellenico era diventato la base della civiltà antica, e si era imposto sulle varie popolazioni del bacino mediterraneo. La sua filosofia e umanesimo sembravano senza rivali, i suoi concetti politici erano i più potenti, la sua religione politeistica aveva attecchito ovunque.
Tuttavia il popolo d’Israele, guidato dai rabbini e dai sapienti, rimaneva impermeabile a quella cultura così diversa dal modello della Torà di Mosè. La cultura greca era permissiva in termini di moralità sessuale e civile; esaltava la bellezza del corpo fisico e la sviluppava con gli sport ginnici; filosofeggiava moltiplicando le sottigliezze di pensiero e le disquisizioni erudite. Alla base di quella filosofia c’era però la convinzione secondo cui il raziocinio umano può arrivare da solo a spiegare tutta la creazione e la vita, un credo che ha continuato a trovare seguaci in ogni tempo e luogo. Gli ebrei al contrario si attenevano a strette norme di purezza sessuale ed alimentare, preferendo le qualità dell’umiltà, del servizio umano e religioso a quelle della bellezza e della forza fisica. Nel campo intellettuale gli ebrei si dedicavano più che mai allo studio della Torà, secondo dei metodi di pensiero radicalmente diversi da quelli della filosofia greca.
Due sistemi così opposti dovevano prima o poi scontrarsi. Nel periodo della dominazione ellenica su Israele, ciò che in realtà stava succedendo era il confronto tra la fede in Dio, così com’è proposta e descritta dalla Torà, e un paganesimo sofisticato quanto si voglia, ma prigioniero dell’esaltazione dei poteri dell’uomo, dei suoi bisogni istintivi e della pretesa orgogliosa che la ragione, insieme alla bellezza e alla forza fisica possano tutto.
La vittoria dei Maccabei, e di tutto Israele con loro, fu la vittoria della Torà contro l’idolatria, che pur si era travestita da cultura raffinata e moderna, da civiltà superiore. Il gigante forte ed arrogante (Golia) fu nuovamente abbattuto dal piccolo ma determinato pastore (Davide). Pur essendosi adattato al giogo politico, Israele si ribellò quando il re Antioco proibì la pratica di alcune “mitzvot” (precetti religiosi) fondamentali dell’Ebraismo, come la circoncisione. La ribellione dei Giudei si innescò proprio allora, e dopo anni di lotta difficile e sanguinosa, con esiti alterni, essi riuscirono a liberare Gerusalemme e a purificare il Tempio, che era stato profanato dagli stranieri.
La luce di Chanuka commemora quella vittoria eterna. Anche se Israele, nei secoli successivi, dovette di nuovo piegare il capo sotto l’amarezza dell’esilio, anche se un certo neo-paganesimo viene riproposto tutt’oggi dalla cultura dominante, la vittoria della luce della Torà è eterna, e la verità non tarderà a rivelarsi agli occhi di tutti.
Vediamo qualche altro importante aspetto del miracolo di Chanuka. In realtà esso è costituito da ben quattro miracoli distinti: due riguardano la Menorà del tempio di Gerusalemme, e due riguardano la vittoria militare vera e propria contro il giogo ellenico. Essi sono:
1) Il ritrovamento della giara contenente l’olio puro, portante il sigillo del Grande Sacerdote;
2) il fatto che, pur se sufficiente per un solo giorno, l’olio durò otto giorni;
3) la vittoria di un minuto gruppo di combattenti contro un esercito molto più potente dal punto di vista militare;
4) il fatto che il nucleo di tale pugno di combattenti, i Hashmonaim, fosse costituito da Cohanim (Sacerdoti), che secondo la tradizione ebraica non si dovrebbero occupare di arti militari.
Vediamoli nei dettagli.
1) I dominatori della Siria ellenistica avevano dissacrato tutto ciò su cui avevano potuto mettere le mani, ma non erano arrivati ovunque: in un angolo remoto dei sotterranei del Tempio venne rinvenuta una giara rimasta intatta. In Cabalà da sempre l’olio è il simbolo dell’anima. Come in natura l’olio è la quintessenza della pianta o del frutto che lo contiene, conservando nel suo profumo e gusto tutte le loro proprietà essenziali, cosi anche l’anima è la quintessenza della persona. Così come l’olio può accendersi e dare luce, anche l’anima è il luogo ove la luce della consapevolezza è concentrata e nascosta. In ebraico “anima” si dice נשמה “neshama’” (Nun – Shin – Mem – Hey), dalla radice “nasham”. Una permutazione di queste lettere dà origine alla parola שמן “shemen” (Shin – Mem – Nun) = “olio”. Inoltre, una permutazione delle lettere della parola “neshamà” (anima) dà luogo alla parola שמנה “shmone” (otto), la lunghezza del periodo di giorni durante i quali l’olio continuò a bruciare, la lunghezza della festività di Chanuka.
La brocca d’olio integra trovata nei sotterranei del Tempio rappresenta la fedeltà che gli ebrei avevano mantenuto alla conoscenza interiore e profonda della Torà. La vera forza e vitalità di ogni cultura, con la sua religione e spiritualità, sta nel segreto dell’unione tra la sua parte interiore (mistica e simbolica) con quella esterna (legale, rituale e teologica), sta nell’unione tra la sua anima e il suo corpo, tra la parte maschile e quella femminile. Tale unione non esisteva più nella cultura greca. Da una parte essa annoverava i filosofi più famosi, i primi scienziati e medici degni di questo nome. Dall’altra la religione era appannaggio solo del popolino, e veniva derisa dai filosofi e dai sapienti, che non ponevano certo la loro fiducia negli dei dell’Olimpo. Infine, i depositari della conoscenza esoterica, dei misteri eleusini, dei segreti pitagorici, erano una minoranza nascosta, che non riusciva ad influenzare gli sviluppi del pensiero dominante.
Non era questo il caso del popolo d’Israele, la cui Torà o “insegnamento” si basa su di un legame inscindibile tra parte interna e segreta (nistar) e parte esterna e rivelata (niglè). Non tutto il popolo ebraico era rimasto fedele alla Torà, anzi, in grande misura aveva risentito della tremenda forza d’attrazione della cultura ellenica, conformandosi ai suoi dettami. Ma tale assimilazione era solo superficiale. Nei sotterranei del Tempio l’olio era rimasto puro, la connessione col senso profondo ed eterno della Torà non si era persa, e al momento adatto venne ritrovata.
2) Il secondo miracolo ha a che fare col numero otto. Esso simboleggia il superamento della dimensione del tempo e l’entrata nell’infinito. La luce di Chanuka, pur durando soltanto otto giorni, rimane accesa per sempre. I rabbini fanno notare come, tra tutti i vari servizi del Tempio, l’unico rimasto oggi, duemila anni dopo la sua distruzione, è quello dell’accensione delle candele di Chanuka, che riporta ai nostri occhi la luce della Menorà, al di là di ogni barriera spazio-temporale.
3) La vittoria militare indica come la dualità tra forza politica e spiritualità, tra potere militare e potere morale non sia un ostacolo insuperabile. Gli onesti e i buoni sono sempre stati i più deboli, la minoranza perseguitata. Uno dei motivi che spinge la gente ad abbandonare i comportamenti morali ed etici sta nel fatto che ciò non produce abbastanza frutti, mentre invece la sopraffazione e il raggiro rendono di più. Ma non si tratta di una realtà ineluttabile: Dio è in grado di “consegnare i forti nelle mani dei deboli, i più nelle mani dei pochi, gli impuri nelle mani dei puri, i malvagi nelle mani dei giusti” (da una frase contenuta nelle preghiere che si recitano a Chanukà).
4) Il coraggio e la bravura dei Maccabei indicano infine che coloro solitamente dedicati al servizio divino sono in grado di combattere, anzi, al momento dell’occorrenza, sono in grado di costituire il nucleo centrale della resistenza contro gli oppressori. Tale insegnamento è quanto mai attuale oggi in Israele, pur non essendoci ancora il Tempio. I Cohanim di oggi sono i gruppi religiosi, in particolare gli studenti delle Yeshivot, che si occupano di Torà a tempo pieno. I Charidim (ebrei ultra-ortodossi) sostengono di essere esenti dal servizio militare in virtù del loro essere gli eredi spirituali dei Cohanim, che nella Torà di Moshè non avevano nessun dovere militare. Ma gli eventi di Chanuka sembrano piuttosto dar ragione al movimento sionista religioso, i cui membri trovano tempo ed energia per fare l’uno e l’altro, e per contribuire al ripetersi del miracolo di Chanuka: la vittoria di un piccolo popolo contro vicini molto più numerosi e aggressivi.